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Aprire sedi all’estero non significa necessariamente sottrarre ricchezza e posti di lavoro all’Italia. Molte multinazionali italiane annoverano i propri headquarter in Italia e numerose filiali all’estero, come Mozzanica.

 

Davanti alla notizia di un’azienda italiana che apre nuove filiali all’estero, l’opinione pubblica italiana tende a ritenere che si tratti del primo passo di una strategia che porta all’allontanamento e alla progressiva chiusura (con perdita di posti di lavoro e know-how) delle strutture di quella stessa azienda presenti sul territorio nazionale.

Ora, benché ci siano stati (e ci sono tuttora) esempi eclatanti di alcune aziende che hanno perseguito tale strategia, non è assolutamente corretto fare di ogni erba un fascio, per dirla con un proverbio.

Semmai, si dovrebbe analizzare il quadro nella sua interezza (tutti i settori dell’economia) e nella sua complessità: l’apertura di una nuova filiale all’estero può essere sintomo di un’azienda in salute, guidata da un management che vuole farla crescere.

E analizzando questo quadro, i numeri che si raccolgono narrano una storia ben diversa, fatta di investimenti che hanno creato un indotto e una ricchezza che si sono riflesse anche in Italia, benché derivassero, appunto, dalle tanto biasimate sedi estere.

 

Cosa dicono i numeri

 

Partiamo dal Terzo Rapporto Innovazione Italia, realizzato dal centro studi di Confindustria in collaborazione con Assoconsult e Il Sole 24 Ore, che parla di un’Italia che sta performando bene nel contesto della competitività internazionale e soprattutto meglio degli altri principali paesi esportatori che la ricerca ha preso in considerazione.

Se tutti, infatti, hanno registrato contrazioni nel proprio volume di export superiori all’1,5% nel decennio 2012-2022, il nostro Paese si è fermato a un più che accettabile -0,8% (si consideri per esempio che la tanto blasonata Germania ha perso l’1,8% e il Giappone ben il 3,7%).

La tenuta del nostro export ha fatto guadagnare all’Italia la sesta posizione nella classifica mondiale dei Paesi con i più alti livelli di esportazione; un sesto posto che da gennaio a giugno 2024 si è trasformato in quarto.

E se ci limitiamo a una classifica solamente europea, l’Italia è seconda solo alla Germania (nazione che peraltro assorbe ben il 12,8% delle nostre esportazioni!).

Risultati importanti, che vengono raccolti da un insieme di aziende afferenti ai più svariati settori (oltre alle tre F - Fashion, Food e Furniture - l’Italia va forte in ambito farmaceutico, nella chimica, negli apparecchi ottici ad alta precisione, nei componenti per autoveicoli; ma anche in prodotti di terracotta, cuoio conciato e lavorato, pelletteria e selleria, pellicce, pietre tagliate e modellate, tubi, condotte, profilati cavi e accessori in acciaio) che riescono a raggiungere il 40,3% dei mercati potenziali (si consideri che la Cina, con tutta la sua “potenza di fuoco”, raggiunge un misero 68%) e che per farlo puntano su due aspetti: l’alta qualità dei prodotti da una parte e il presidio diretto dei diversi mercati dall’altra.

Ecco quindi che l’apertura di una nuova sede all’estero va vista come una benedizione per l’intera economia italiana e non solo per l’azienda stessa.

E questo ce lo confermano anche i numeri di ISTAT: le affiliate estere attive nell'industria (9.319 unità cui si aggiungono le 14.784 affiliate attive nei servizi) impiegano quasi un milione di addetti (57,7% del totale) e realizzano circa 280 miliardi di fatturato (56% del totale).

Di questo fatturato, oltre il 30% è realizzato nel settore della fabbricazione di autoveicoli, rimorchi e semirimorchi; segue la fabbricazione di macchinari e apparecchiature n.c.a. con l’11,6%, mentre la fornitura di energia elettrica, gas, vapore e aria condizionata contribuisce con il 10,3%.

Oggi le multinazionali italiane esportano in 175 Nazioni; secondo i dati ISTAT a fine 2022 erano 24.103 aziende attive (di cui 9.319 appartenenti all’industria), per un totale di 1.769.264 addetti e 499.432 milioni di euro di fatturato.

 

Sempre dallo studio ISTAT sulla struttura e competitività delle imprese multinazionali emerge che il 46,7% dei principali gruppi multinazionali italiani attivi nell’industria (-5,8% rispetto al biennio precedente) e il 40,6% di quelli dei servizi (+3,5%) hanno realizzato o progettato per il 2021-2022 (biennio preso in considerazione dalla Rilevazione sulle attività estere delle imprese a controllo nazionale) un nuovo investimento di controllo all’estero.

Più limitata ma in crescita è stata la propensione allo stesso tipo di investimento estero da parte dei gruppi multinazionali di medio-grande dimensione: le quote sono pari al 20,6% nell’industria (+4,1%) e al 21,2% nei servizi (+0,9%), mentre i gruppi multinazionali di piccola dimensione presentano una quota del 10,5% nell’industria (+1,4%) e del 7,6% nei servizi (+1,4%).

Vale la pena sottolineare anche altri dati emersi dalla ricerca: tra le principali motivazioni alla base dei nuovi investimenti esteri la riduzione del costo del lavoro rappresenta una spinta importante solo per il 12,5% delle aziende; ben il 78,3% ha indicato come motivo principale per affacciarsi all’estero con una presenza diretta la possibilità di accedere a nuovi mercati.

Infine sono ritenuti determinanti altri due fattori: l’aumento della qualità e lo sviluppo di nuovi prodotti (22%) da una parte e l’accesso a nuove conoscenze o competenze tecniche specializzate (17,2%) dall’altra.

 

Quali sono i mercati esteri più attraenti

 

Stati Uniti, Romania, Brasile, Cina, Spagna e Germania sono i mercati esteri che attragono maggiormente le aziende italiane

Al primo posto nella scelta delle aziende italiane riguardo alla nazione in cui aprire una propria filiale ci sono gli Stati Uniti; attualmente vi sono oltre 150.000 addetti impiegati. Seguono Romania, Brasile, Cina, Spagna e Germania.

Le nuove sedi estere aperte dalle multinazionali italiane nel biennio 2021-2022 sono state finalizzate tanto per le imprese industriali quanto per quelle attive nei servizi; queste aperture sono state principalmente destinate alla produzione di merci e servizi (32% per le imprese industriali; 35,5% per quelle attive nei servizi) e alla distribuzione/logistica (22,9% per le imprese industriali; 17,6% per quelle nei servizi). Seguono le attività di marketing e vendite (21,9%) e i servizi post-vendita inclusi i centri assistenza (14,7%).

 

Italiani importanti all’estero

 

Come abbiamo già accennato non sono solo le realtà delle tre F a essersi espanse oltre le Alpi.

Vi sono prestigiosi nomi del settore bancario ed assicurativo come Assicurazioni Generali SpA e Unicredit SpA; nel mondo delle costruzioni non si può non citare Webuild; così come il Gruppo Benetton nell’ambito dell’abbigliamento.

Lavazza e Barilla rappresentano esempi significativi nel food con headquarter in Italia ma molte filiali estere.

Tra i nomi rilevanti che continuano a mantenere salde le proprie radici in Italia ma guardano all’estero per cogliere maggiori opportunità di consolidamento c’è anche Mozzanica.

 

A riprova del forte legame con l’Italia l’azienda di Osnago quest’anno ha aperto una nuova sede nelle Marche ma punta anche a consolidarsi all’estero attraverso l’apertura di una nuova filiale in America; più precisamente a West Palm Beach in Florida.

Abbastanza chiari i motivi della duplice scelta geografica: avvicinarsi alle zone con un’alta concentrazione di clienti nel settore Marine, Industrial e Oil&Gas per fornire un servizio costante e di primissima qualità.

In tutti questi settori la tempestività d'intervento è essenziale in caso di danneggiamento degli impianti; altrettanto fondamentale è l'azione preventiva attraverso una manutenzione costante.

Con la sede statunitense Mozzanica conferma quella che è la propria filosofia guida: essere una multinazionale tascabile italiana, con sedi operative ottimamente distribuite in grado di garantire ai clienti massima efficienza operativa insieme a tempi di risposta rapidi e con tecnici e ingengieri formati e pronti ad affrontare qualsiasi sfida.

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